Dai una pittula a un cavallo la Notte di Natale e il cavallo parla. Il mito di Eco e di Narciso nelle cucine contemporanee

Voglio dirvi di questa storia della pittula e del cavallo, ma prima di farlo devo dirvi della Notte di Natale…(un testo di Titti Pece scritto in occasione della Cena degli Auguri della Accademia Italiana della Cucina – Delegazione di Lecce. 15 dicembre 2017)

Voglio dirvi di questa storia della pittula e del cavallo, ma prima di farlo devo dirvi della Notte di Natale: che qualcosa ha di certo a che vedere con la nascita di Gesù, ma molto di più ha a che vedere con l’antichissima festa dei Saturnali. Quel che c’è in comune è però, tra le due feste, un ‘pensiero’ di fondo (oggi diremmo un ‘concept’) e una scadenza sul calendario (oggi diremmo un ‘format’).

Già, per l’appunto: una scadenza sul calendario: “…specialmente le feste di Natale sono giorni famosi per le scorpacciate. Sono giorni di cuccagna universale”. E a dirlo era il grande Goethe, che quando così diceva si trovava a Napoli.

Noi ora invece ce ne andiamo nella Roma antica, quella ancora frugale e ancora un po’ contadina ed ecco le scorpacciate a cui assistiamo. C’è di tutto: dolci e focacce al miele, animali che parlano, padroni che invitano a tavola gli schiavi.

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Siamo nei giorni del solstizio d’inverno, il sole ha toccato il suo punto più basso, il vecchio sole sta morendo, il nuovo sole sta per ri-nascere.

Tra i due momenti c’è di mezzo un brevissimo tempo vuoto, quel tempo in cui per un attimo tutto si capovolge. Nel mondo capovolto si rimescolano le carte e in quell’attimo di sospensione tutto può ritornare alle origini, prima della storia, prima dell’ordine delle cose, prima del linguaggio.

È il momento in cui diventa labile il confine tra il regno dei vivi e il regno dei morti, tra il mondo degli uomini e quello degli animali. Che ritornano: i morti a mangiare, gli animali a parlare..[1]

Saturno è il dio che si celebra in queste feste. Che culminano nel Natale del Sole, il 25 dicembre, giorno in cui il primo sole nuovo rinasce all’orizzonte. Chi è Saturno e perché proprio Lui presiede a queste feste è una lunga storia. E di Lui sappiamo che, dio della Pace e dell’età dell’oro, esiliato da Zeus/Giove, viene liberato dal suo sonno e rinasce bambino proprio in questo giorno. Giorno in cui gli schiavi sono liberi, tutti si scambiano doni e diventa lecito anche il gioco d’azzardo. Giorno ‘magico’ .

Gli schemi ci sono tutti e sono gli archetipi del nostro Natale cristiano. Ed è in questo giorno che gli animali parlano. A schiavi e animali la ‘notte magica’ restituisce la libertà e con essa la dignità del linguaggio.

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Con un salto nella storia e uno nella geografia eccoci ora nei pressi del Canale d’Otranto, qui nel basso Adriatico. Che strana corrispondenza scopriamo tra le due sponde! Come in uno specchio si riflettono certi nomi dei luoghi da una sponda all’altra e in comune pure si trovano certi cibi e certe usanze. Come la pittula per esempio, che si prepara la sera della Vigilia di Natale e la prima pittula si offre nella grotta del Presepe al Bambino che nasce.

La pittula è un dono, dunque. Ma di che dono si tratta? La domanda la lasciamo per il momento da parte e intanto seguiamo a ritroso queste tracce. Abbiamo due indizi: uno nel mondo antico e uno nel mondo bizantino greco-ortodosso. a partire da quell’area levantina da cui sono partite (e ancora oggi partono) tante altre storie.

Primo indizio: la preparazione della ‘pittula’, in uso già in età greco-romana. L’indizio (purtroppo senza citazione di fonte) ce lo passa uno storico della cucina pugliese, Luigi Sada: “si preparavano fra tanti dolci da consumare alla fine del pasto certe frittelle dette euchytes; si ottenevano versando la pasta nell’olio bollente attraverso un imbuto e si gustavano condite col miele”. Non c’è bisogno qui di ricordare che l’offerta di dolci a base di farine impastate e miele è sempre stato, nel mondo antico greco e latino, il dono portato agli dei nei giorni della loro festa.

Lo stesso indizio ci porta agli animali che parlano. Molte tradizioni popolari nelle nostre regioni del Sud-Italia narrano di una notte magica in cui gli animali parlano. In alcuni casi questo succede nella Notte di Natale, in altri nella Notte della Befana, in altri casi nella notte della festa di Sant’Antonio Abate (17 gennaio). E anche di questa tradizione si trova traccia nei Saturnali: con l’antico rito degli animali domestici portati alla mensa degli uomini e serviti dai rispettivi padroni per impedire loro di acquisire il dono della parola. Il detto “Dai una pittula a un cavallo la Notte di Natale e il cavallo parla” è documentato nelle tradizioni natalizie della città di Maglie, insieme alla ricetta di un pane speciale detto “Pane della Pace”. E tutto succede nel cenone della vigilia, dove per tradizione le portate non sono mai meno di tredici e dove a mezzanotte, quando la famiglia va in chiesa, si lascia la tavola imbandita di tutte le pietanze per i morti che torneranno nelle loro case a cibarsene.

Documentiamo invece a Gallipoli, nel cenone di Natale delle Carmelitane Scalze, nel convento di Santa Teresa, una pietanza detta “il mangiare dell’asinello”, che poi è un biancomangiare, con un posto lasciato apparecchiato a tavola per l’asinello e il Bambino. Nessun dubbio insomma: questa è una notte ‘magica’. Senza distinzioni tra ‘pagani e ‘cristiani.

Secondo indizio_ Il cibo/parola è il Verbo, come Colui che ri-nasce nella grotta a Betlemme (per inciso: leggo da qualche parte che Betlemme in ebraico significa ‘casa del pane’. Un indizio nell’indizio, non vi pare?)

 

La contiguità tra cibo e linguaggio appassiona gli antropologi di tutto il mondo. Noi guardiamo la questione dal piccolissimo punto di vista della parola ‘pittula’ e anche dal punto di vista della simbologia del miele, sapore dolce che da sempre le si accompagna: miele come parola del dio, parola del saggio. Potrebbe venirne fuori un bel saggio con un bel titolo: “Tutto sulla pittula come dono e come Verbo”. Ma per qualche notizia su questa storia rimando al mio libro “Come le api al miele”, nelle ultime pagine.

Quanto alla parola ‘pittula‘ quel che posso dire qui in tutta fretta è che essa trova origine nell’etimo “pit”, da cui qui da noi: pittula, pitta, pitilla, pittella o pitteddha; ma anche ‘pita’ araba, pita greca e anche tante altre pite e pitte in uso in un’area geografica vastissima dal Medio-Oriente ai Balcani, dove la diffusero i bizantini derivandola dall’arabo levantino che a sua volta la derivava dal siriaco che a sua volta forse la derivava da una antichissima radice semitica (nell’area della mezzaluna fertile, dove anche era nata l’agricoltura). Non mi addentro in una storia che non mi compete e che lasciamo ai linguisti. Noto solo che questa parola pit-a indica il pane, come sinonimo di cibo. Il primo cibo dell’uomo e anche la sua prima parola, pit.

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“Dai una pittula a un cavallo la Notte di Natale e il cavallo parla”: è solo una magia e come ogni storia di magia contiene un suo significato simbolico e quindi funziona. A meno che non tappiamo la bocca al cavallo per impedirgli di dire e impedirci di ascoltare quel che pensa di noi.

Ed ecco che quando il cavallo parlò, così raccontò per noi la storia di Eco e Narciso.

Era stata, Eco, una bellissima ninfa. La sua figura si dissolse e di lei restò solo la voce. Una voce però impossibilitata a parlare e che può solo ripetere ciò che sente dire.

I miti sono spesso tragici e cattivi; ma dicono cose che dobbiamo sforzarci di capire. E poi il bello dei miti è che possiamo interpretarli e adattarli a tante situazioni.

Eco, per esempio. E se per noi indicasse l’ascolto? O la memoria? O la tradizione?

Come l’eco che abbiamo sentito nel sapore della pittula o come la madelaine di Proust o come quando in una prefazione ad un libro di ricette salentine Mario Marti, lui intellettuale e storico delle letterature, ricorda con nostalgia traboccante di emozione il rito familiare della preparazione dei vermicelli al baccalà. E guarda caso anche quello era un giorno di vigilia, dunque un’altra notte ‘magica’.

Attenzione però: non è che Eco ci stia trasferendo delle ricette. Le ricette, dice, non esistono veramente. Quel che esiste invece, anzi è esistito, è a suo dire il valore sacro e simbolico del cibo, disseminato nelle ricette. Come un’eco, appunto.

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Il discorso del cavallo fece molto piacere a tutti i fautori della tradizione. “Il futuro è dietro di noi”, esclamò qualcuno. E qualcun altro, facendogli eco, disse: “ la ‘destrutturazione creativa’ a cui oggi assistiamo altro non è che la moda del momento. Nella tradizione è oggi la vera avanguardia”. In parte, ma solo in parte, la cosa potrebbe ritenersi giusta e vera.

Se non fosse per Narciso, il cui mito ora affascina i convitati. Così dunque continuò il suo racconto il cavallo. E disse del bellissimo Narciso incapace di amare, quindi senza ricordi, immemore di Eco e innamorato solo della propria immagine.

Come tutti gli artisti, disse qualcuno. Ma subito tacque.

Dopo un attimo di silenzio che cadde come quando cade il sale sulla tavola, i commensali si divisero tra il partito di Eco e il partito di Narciso e neanche Lilli Gruber riuscì a governare l’acceso dibattito.

La soluzione la propose placidamente il cavallo. Propose di rivedere tre film e poi consigliò di leggere “Sotto il sole giaguaro”.[2]

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Ad onor di cronaca devo dirvi i titoli dei film consigliati.

Il primo fu “Il pranzo di Babette”: il cibo come dono, il cibo come ‘parola’, il cibo nel suo valore ‘sacro’; e tutto questo in perfetta armonia con il valore dell’arte. Di certo Il film di Eco.

Il secondo titolo fu “Chef”, il film di Narciso. Una commediola da niente di fronte a Babette! Meglio leggere un libro, per esempio “Estasi culinarie”.[3]

Per il terzo film c’erano tre titoli in gara: Couscous, Un tocco di zenzero e Big Night (un regista tunisino, un regista greco e un regista italo-americano).

“Perché questi film?”,chiese quancuno. E il cavallo disse: “guardateli, in ognuno di essi troverete qualocosa in cui rispecchiarvi”..

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A questo punto, secondo gli schemi del buon conversare, si dovrebbero trarre delle conclusioni. Ma queste si possono trarre solo a tavola, concluse il cavallo, conquistandosi così un posto di riguardo alla mensa degli uomini. Che notte, ragazzi!

Il giorno dopo sui social tutti parlarono di quella cena fantastica. Babette era stata splendida; il menu equilibratissimo senza per questo farci rinunciare all’effetto di sorpresa e stupore. Solo sul film “Chef” qualcuno ebbe un dubbio e chiese: “Ma la parola del critico gastronomico che potere poi ha avuto?”.

Potere? La parola ha a che fare con il potere?

Certamente, disse loro, salutandoli, il cavallo. Ma questa è un’altra storia.

E di lui si sentirono appena i suoi zoccoli posarsi leggeri sul sentiero e perdersi nella notte magica.

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E poi?

E poi, siccome le storie non finiscono mai, ma continuano in altre storie, anche questa storia non finisce qui:.

Avvenne infatti che, proprio lì dove era morto Narciso, nacque dalla terra un fiore, che prese il suo nome e si chiamò Narciso. Qui nel Salento, in questo luogo eccentrico del Mediterraneo, quel fiore lo chiamano ancora oggi ciceri e trìa. Dal nome (e dai colori) di una pietanza altrettanto rituale come la pittula.

Quando però quel fiore appare nei campi, un incantesimo finisce e un altro ne ricomincia. È la fine dell’inverno e, guarda caso, ci ritroviamo in un equinozio. Celebrato da un’altra tavola sacra e simbolica, la tavola di San Giuseppe.

È proprio vero: dove c’è gusto c’è credenza e tutte le storie della storia passano dalle cucine e si raccontano  a tavola

 

 

[1] Stiamo sintetizzando e anche semplificanao, ma qui vogliamo solo ritrovare anche riconoscere alcuni archetipi che governano ancora i nostri comportametii e le nostre feste di oggi. A voler essere più precisi questo tempo vuoto serviva a pareggiare i conti nella differenza di giorni tra il calendario solare e i lcalndario lunare.

[2] È un libro di Italo Calvino, uscito postumo per le edizioni Mondadori: racconti ognuno dedicato a uno dei cinque sensi- Quello che dà il titolo al libro è dedicato al sapore

[3] Estasi culinarie, romanzo di Muriel Barbery, uscito per le ediziopni E/O – 2008

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