I regimi passano, la cucina resta. Parte I: A cena con il diavolo

Ecco una buona storia, con un bel titolo e tanti personaggi.

Cap 1- Parigi 1815 – A cena con il diavolo

tittii vermer

Sono a Parigi. Ed è esattamente il 6 luglio del 1815. Tre giorni dopo Waterloo. In un magnifico palazzo al n° 2 di rue Saint Florentin due uomini stanno cenando. In cucina c’è Antonin Carème, le portate si succedono splendide come monumentali architetture fantastiche, mentre i commensali stanno decidendo del destino di Francia. Già ministro di Napoleone e ora transformer della restaurazione di regime da farsi, Talleyrand mangia e conversa con il prefetto Fouchè. Sono un po’ emozionata: sto osservando a tavola i due uomini in questo momento i più potenti di Francia. Giù per strada, sotto le finestre sento che sbraita, urla e protesta il popolo di Francia. A tavola la discussione verte sul come rimettere in trono Luigi XVIII, come far sì che il popolo accetti questo restauro di regime (e anche come far sì che il Re riaccolga Talleyrand dopo tante prove di trasformismo. Giochi di potere: sono spaventata, mai visti tanto da vicino. Per fortuna che in cucina c’è Carème, assaggio  un petit asperge proprio  quanod sento Talleyrand confidare a Fouché vedi mio caro i regimi passano ma la cucina resta. Mentre Carème manda in tavola, perché i commensali se ne sazino, i suoi monumentali “ Assaggi Eccentrici “ (gli chiedo se posso chiamarli così, lui ironico e divertito acconsente)

 Carème

Il grande Antonin Carème è il primo personaggio di questa mia storia. Di lui ricordiamo per il momento la sua origine poverissima, la sua passione per la cucina, il suo curriculum di tutto rispetto prima e dopo l’incontro di questa sera a casa Talleyrand: è giusto ricordarlo, chè essere passati dalle cucine di Napoleone a quelle dello Zar, da Parigi a San Pietroburgo, da Londra a Vienna, beh non è uno scherzo, anzi! Ma che cucina sarà stata mai, ragazzi?

Ve lo dico io, che posso testimoniare avendolo incontrato e conosciuto di persona in casa Talleyrand: la tenete presente la cucina francese, quella per noi oggi classica (moderna invece per i suoi tempi)? L’ha codificata lui, Carème. Regalando alla cucina moderna nata dalla rivoluzione francese, il senso tutto napoleonico dell’Impero e della Regalità E buon per noi ha anche inventato la pasta sfoglia e il vol au vent.!

In bocca mi rimane il sapore del vol au vent – Il film in cui mi trovo è Le Souper, di Edouard Molinaro, Francia 1992

Cap 2 – A Napoli negli stessi anni

FerdinandoeCar        Vincenzo Corrado

Mentre Carème preparava regali pranzi viaggiando da Parigi a San Pietoburgo, da Londra a Vienna, in quegli stessi anni tra il 1815 e il 1835 nel Regno delle Due Sicilie, nella capitale del regno ritornato borbonico dopo la rivoluzione soffocata nel sangue, nella Napoli che ancora rimaneva, dopo Parigi, la seconda città del continente, un altro giovane giunto lì dal Salento anche lui di origini poverissime si era guadagnato nel frattempo gran fama per le sue ricette la sua scienza e la preparazione dei suoi pranzi. Vincenzo Corrado ammirava la cucina francese moderna, parlava di cibo pitagorico, conosceva anche le cucine contadine del Sud, se ne intendeva di agricolture e filosofia e a Napoli educava i figli e cucinava per i padri nei palazzi degli aristocratici cortigiani del Re. Monaco benedettino dell’ordine dei Celestini, ebbe occhio e intuito fini per accorgersi che dopo la rivoluzione e dopo il periodo napoleonico le cucine non possono più restare come sono. Come tutto il mondo intorno, anche le cucine passano. Passa la cucina de’ nobili e arriva la cucina borghese! Così pensa ormai vecchio Vincenzo Corrado e si mette a scrivere di pranzi giornalieri preparati secondo i ritmi delle stagioni per tutti i giorni dell’anno, settimana dopo settimana. Sarebbe piaciuto a Brillat Savarin che un po’ odiava Carème; ma il pingue e goloso notaio viveva a Parigi né mai si recò a Napoli e pure don Cenzino a Parigi non c’era stato. E lui in quel libro ci aveva messo un bel po’ di fatica ma poi alla fine, come si vede, rimane due volte fregato.

Fregato?

La prima volta nel 1807 da Giuseppe Bonaparte Re di Napoli, che sopprime l’ordine a cui il benedettino appartiene lasciandolo senza casa e senza abito . La seconda volta, proprio alla fine, lo frega un aristocratico, un Duca, che mentre il nostro Vincenzo codifica la cucina borghese, inventa invece la cucina popolare: che ovviamente a Napoli (come altrove) esisteva da sempre ma non esisteva in forma di scrittura né mai ancora era entrata nelle narrazioni e nell’immaginario (quel luogo dove le cose della realtà da reali diventano vere ovvero acquistano senso così determinando e modificando a loro volta i comportamenti degli uomini che così modificati a loro volta modificano la realtà)- (non mi sto incartando con le parole: sto solo facendo un esperimento linguistico alla Raymond Queneau)- .

Così la rivoluzione partenopea falllita in piazza si rifà in cucina grazie ad un nobile e gentile signore che di nome fa Ippolito Cavalcanti, vive in un Castello come Duca di Bonvicino e nientedimeno discende dalla nobile famiglia di Guido, poeta delle cerchia del sommo Dante.

Ed ora io mi chiedo e vi chiedo: dopo aver conosciuto Vincenzo Corrado e il Duca di Bonvicino possiamo dire che i regimi passano e le cucine restano?

In bocca il sapore che mi porto via è una minestra maritata che mi ricorda il Sud e anche mi ricorda la Spagna- la ricetta è di Vincenzo Corrado

Cap 3 I gattopardi

La domanda su cosa passa e cosa resta, se le cucine o i regimi, mi è rimasta semza risposta finche qualche anno più tardi in un altro momento di grandi cambiamenti storici, proprio nel passaggio dal Regno borbonico delle Due Sicilie al Regno Unito d’Italia, non ho fatto un’altra esperienza straordinaria. Mi trovavo a Donnafugata confusa tra gli ospiti in casa del Principe di Salina il giorno in cui si portò a tavola quel magnifico timballo di maccheroni trionfo della cucina dei Monzù (non senza un debito da riconoscere al nostro Vincenzo Corrado). E’ in atto un passaggio di regime: posizionarsi e riposizionarsi è il gioco del potere e qui ad esserne consapevoli sono il Monzù, Don Fabrizio e suo nipote Tancredi a cui il principe zio affida il compito di occupare il futuro. E qui ho colto con le mie orecchie quella frase celebre pronunziata dal principe di Salina quando ha detto: che “qualcosa doveva cambiare perché tutto restasse com’era prima “.. Allora ho capito il valore simbolico del timballo che restava lì a testimoniare che nulla cambia mentre sembra che stia cambiando. Ed è la prova che Carème si sbagllava, che sì la cucina resta ma anche i regimi, alla fine cambiano solo forma ma mica passano.

E per fortuna qui c’è questo timballo, il cui profumatissimo calore arrivando sino alla pancia mi ricorda che il sapore sviluppato dalla buona cucina alla fine è un’esperienza erotica oltre che palatale (sarà questo quel sesto senso di cui civettava Brillat Savarin? Così scoprendo per primo il ruolo e la funzione del Tempo nella graduale percezione del sapore mentre lentamente passa dal palato alle viscere riscaldando tutta la pancia)–

Ma aspettate, la storia non finisce qui! seguitemi ora che entro nel Novecento
nel capitolo 4
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